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27.01, Giornata della Memoria: i Bambini della Sciesopoli

Primi giorni di maggio del 1945. Shmuel Milchman si sveglia, è tardi e soffia una strana brezza nell'aria stanca del dormitorio: il campo di concentramento di Ebensee (Austria) è silenzioso, troppo silenzioso. Con i suoi compagni esce dallo stanzone, tra loro aleggia sospetto, paura, sicuramente qualcuno di loro avrà pensato ad un crudele scherzo dei loro aguzzini, ma presto la fame vince ogni timore. Shmuel ha 16 anni al momento della liberazione ed è sopravvissuto a 3 campi diversi, compreso Auschwitz.

Poco distante, nel campo di Mauthausen, Bernat Rosner, allora tredicenne, fa la stessa scoperta. Presto sopraggiungono le truppe alleate. Tra questi vi sono dei membri della brigata ebraica che si fanno carico dei bambini, compreso Bernat, per convertirli alla causa sionista e poi spedirli illegalmente in Italia, pronti ad imbarcarsi per la palestina. Shmuel, invece, trascorre ancora 2 settimane nel campo, poi decide di scappare con il primo treno, tentando di lasciarsi alle spalle i ricordi dei tormenti vissuti. Arriva a Innsbruck dove anche lui incontra un drappello della brigata ebraica che lo accompagna in Italia. I due si incontrano nel complesso della Sciesopoli di Selvino.


Ma fermiamoci un attimo; probabilmente vi starete chiedendo perché stia iniziando il racconto dalla fine. Ebbene vorrei raccontarvi le storie di questi ragazzi dopo la liberazione dai campi, ma prima del controverso esodo verso Israele (in questa sede voglio sorvolare la tematica sionista, di cui queste vicende sono abbondantemente intrise, poiché qualsiasi opinione si abbia in merito non deve in alcun modo oscurare il ricordo delle vittime della shoah che oggi celebriamo). Propongo ciò per porre l’attenzione sul processo di riabilitazione e il lento tentativo di tornare alla normalità, durante il quale emergono con chiarezza i demoni e i traumi accumulati nei mesi o anni precedenti.


Tornando ai fatti, la Sciesopoli di Selvino era un ex colonia per la gioventù fascista, che dopo la fine della guerra venne riutilizzata come DP camp (displaced persons camp), che potremmo approssimativamente definire un campo profughi per gli ebrei sopravvissuti o desiderosi di fuggire dall’europa verso la nuova terra promessa (questo soprattutto in Italia, zona di transito per la Palestina). Questi campi divennero occasione di recupero delle origini e tradizioni ebraiche, ricostruendo un'identità nazionale e umana minata dalle torture e dalle sofferenze dei lager, ma anche una possibilità di riabilitazione lavorativa attraverso corsi professionalizzanti rivolti anche agli adulti. Talvolta però questi campi a causa di una cattiva gestione o scarsità di fondi si rivelarono tutt’altro che idilliaci: un rapporto italiano del 1947 documenta diverse proteste per la scarsità di cibo, che sicuramente alimentava nei sopravvissuti la paura di essere finiti in un nuovo campo di concentramento.

La residenza di Selvino, dedicata ai minori, sembra però esser stata risparmiata da questi problemi sotto la gestione di Moshe Ze'iri che la organizzò sul modello di una Kibbutz, comunità chiusa e autosufficiente di stampo socialista. Infatti leggendo varie testimonianze, tutti gli allora ragazzi descrivono i mesi trascorsi lí come i più belli della loro vita: 800 ragazzi nei 3 anni di attività della casa hanno ritrovato l’infanzia e la gioia di vivere: giocavano a calcio con i ragazzi di Selvino, facevano giochi di gruppo, passeggiate in città o in mezzo alla natura. Il clima sereno che si respirava contribuì a ricostruire la vita sociale distrutta dai comportamenti sospettosi e apatici causati dai traumi. I ragazzi allacciarono dei rapporti tanto stretti tra loro, probabilmente grazie all'aver vissuto le stesse tragedie, che gran parte di loro rimasero in stretto contatto e diversi, una volta giunti ad Israele, si stabilirono insieme nella comunità di Tze'elim, con cui Selvino anni dopo stabilí un gemellaggio. I ragazzi ripresero anche il percorso scolastico, Moshe (ex insegnante) scelse un "approccio morbido" (che probabilmente significa: evitare bacchettate o altre forme di umiliazione) per non ostacolare la riabilitazione psichica. Ai ragazzi veniva insegnata la lingua e i riti ebraici, ma a differenza di una classica educazione ortodossa gli studi potevano variare anche a materie laiche e alla musica, alla pittura e alle attività artigianali. Il complesso era anche dotato di un cinema, grazie al quale Bernat rimase affascinato dall’America.


Shmuel era grande e di spirito forte, il suo periodo di riabilitazione, come lui stesso racconta, durò poco; ma non fu cosí per tutti soprattutto per i più piccoli o i più fragili. Bernat, che vi trascorse 1 anno e mezzo, utilizza parole molto significative per descrivere la colonia di Selvino: "il luogo in cui ho iniziato a guarire". In effetti i traumi vissuti hanno lasciato ferite profondissime e dure a guarire nella psiche dei bambini. Moltissimi hanno preferito nascondere e dimenticare quella cicatrice, che eppure continuò per decenni a tormentarli negli incubi, concentrandosi invece sul futuro: è per questo che molti sopravvissuti si sono aperti al racconto solo molto tardi mentre altri hanno rimosso sistematicamente parti della loro memoria.

Ma anche in quella permanenza serena il dolore riaffiorava facilmente: la prima volta che Moshe tentò di celebrare i riti del capodanno ebraico, molti ragazzi scoppiarono piangere poiché tornavano alla loro mente i ricordi dei familiari morti o dispersi con cui solevano celebrarli. I traumi, inoltre, si concretizzavano in irrazionali moti di paura, sospetto verso il repentino cambio di vita, ma anche comportamenti problematici nei bambini che ancora dopo diversi mesi nascondevano il pane sotto il letto o rubavano il cibo ai compagni aggredendoli durante i pasti. Sono fenomeni comuni, in altri campi per esempio hanno documentato bambini terrorizzati da chiunque parlasse tedesco o anche solo dall’idea di salire sugli autobus utilizzati per le gite che ricordavano loro i mezzi destinati alle camere a gas.


La maggior parte dei ragazzi compreso Shmuel dopo la permanenza a Selvino tenta di raggiungere illegalmente la palestina come migliaia e migliaia di suoi connazionali con l’aiuto brigate ebraiche. Quando nel maggio 1948 viene riconosciuto ufficialmente lo stato di Israele e legalizzata l’immigrazione, la sciesopoli come gli altri campi si svuota. Ma non tutti i ragazzi si lasciano convincere dalla causa sionista: Bernat, grazie alla disponibilità di un ex soldato americano rimpatriato, coglie l’occasione per ricominciare una nuova vita oltreoceano. La scelta non dev’essere stata affatto facile: da una parte i suoi desideri dall’altra l’aspettativa dell’uomo (Moshe) che per lui e per i suoi compagni era un secondo padre. La sua decisione, sicuramente la strada più difficile tra le due, a seguito della quale fu costretto a lasciare la casa, testimonia una significativa maturazione, una presa di coscienza delle proprie volontà e dei propri desideri, un recupero della condizione umana messa in dubbio dalle violenze e soprusi subiti.

Ma ciò, persino nei racconti di Bernat, non oscura l’importanza fondamentale della permanenza a Selvino per i ragazzi e il loro reinserimento nella società. A testimonianza di ciò nel 1983 una delegazione di 66 ex bambini torno alla residenza, che nel frattempo aveva cambiato varie volte funzione rimanendo comunque nel campo dell’assistenza sociale.


Per approfondire sui processi di riabilitazione dopo la shoah:

  • The Windermere Children, 2020 (film by Michael Samuels)


Sottocommissione cultura


 
 
 

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